Non distraiamoci quando ne parlano: l’Iran
Giulia Salemi parla in farsi alle Iene della rivoluzione femminile in Iran:
Read More...Looking at the world with mindfulness and writing about it in all the languages I can
Giulia Salemi parla in farsi alle Iene della rivoluzione femminile in Iran:
Read More...In questo ultimo periodo un tema che sta assumendo sempre più visibilità a livello internazionale è quello delle pari opportunità.
Lungi da me fare qui una riflessione in chiave economica su questa tematica: non ne ho le competenze. Sono però della ferma opinione che ognuno di noi troverà argomenti sufficienti per riconoscere quanto il garantire alla manodopera femminile una retribuzione corretta, delle condizioni flessibili di lavoro e una fiducia incondizionata nella sua professionalità siano il motore traente di un’economia sostenibile e lungimirante.
Voglio invece far riflettere su un tema linguistico, perché di questo sì che invece so parlare in quanto professional language nerd.
Parto però da un presupposto di carattere sociale, non affermando nulla di innovativo, nel sostenere che il ruolo che la donna ha assunto finora ha origine proprio dall’immagine che si trasmette nell’educazione alle bambine.
Faccio un passo indietro e vi racconto di me. Io non sono mai stata la ‘bambina principessa’: non ho mai indossato un tutù rosa, non ho mai posseduto una bambola (solo delle Barbie) né sono mai stata in grado di farmi uno chignon o una treccia degni di essere definiti tali.
Da molte altre bambine venivo definita un ‘maschiaccio’. Se vogliamo proprio raccontarla tutta, senza voler essere offensiva per chi allora mi trattò così, durante la mia infanzia e la mia prima adolescenza, sono stata offesa sia verbalmente che in modo scritto proprio per questo mio essere brava a livello sportivo (agile a calcio e a pallavolo) e perché assolutamente priva di una coscienza sessuale. Non mi era subito chiaro che il mio essere femmina mi rendesse diversa dai miei amici di sesso maschile.
I miei genitori per fortuna, e questa è la mia opinione personale, mi hanno sempre lasciata libera di giocare come volevo senza inculcarmi modelli o ruoli sociali. Ho avuto quindi la possibilità di dare libero spazio alla mia fantasia quando giocavo da sola e di crearmi con i miei tempi un’identità.
Questo però non ha a che fare con la lingua, penserete voi adesso. No, giusto: finora la mia argomentazione è in chiave sociologica ed basata sulla mia esperienza personale.
Dal punto di vista linguistico, vi confesso di essere rimasta affascinata da una riflessione che mi sono trovata a fare sulla flessibilità della lingua tedesca e, attenzione, sono consapevole che attribuire al tedesco l’aggettivo flessibile può suonare come un ossimoro.
Adesso però mi spiego.
In tedesco il concetto di neonata/o e bambina/o sono espressi con l’articolo neutro: das. Das Baby e das Kind: il bebè e il bambino. Per chi non lo sapesse, in tedesco ci sono tre articoli: der (per il maschile), die (per il femminile) e appunto das (per il neutro).
Questa settimana riflettendo sull’essere donna sia da sola che in compagnia, sono giunta alla conclusione che l’articolo neutro sia una cosa meravigliosa. Usare il neutro riferendosi all’infanzia, periodo in cui prima di tutto si è dei cuccioli alla scoperta del mondo, è una cosa stupenda. Non definire un piccolo essere umano in base al sesso evitando di educarlo facendo leva sul suo genere è una cosa che io, qualora mai avessi la fortuna e l’onore nella mia vita di diventare mamma, mi auguro di saper fare. Sono della convinzione che l’educazione si trasformi in senso di se e nel bagaglio culturale individuale e sociale.
Siamo persone e per questo siamo tutti uguali. Non siamo razze, categorie né tanto meno generi.
Il discorso di ieri di Kamala Harris, dopo la vittoria di Joe Biden alle elezioni americane, rappresenta per me un’ulteriore conferma di quanto sia necessario questo dibattito.
Sì, io da bambina ero un maschiaccio, e allora?! Da ragazzina quando me lo fecero notare, ci rimasi male e me ne vergognai. Oggi, a 34 anni, se ci penso sorrido perché sono diventata la donna che ha avuto le palle di scrivere questo post.
Alziamo la testa e troviamo il coraggio di parlare, per cortesia.
Oggi in metropolitana, ritornando dal lavoro, mi è capitato di chiudere un cerchio. Per raccontarvelo però devo fare un passo indietro.
A giugno del 2016 ho incominciato a prendere il treno verso l’aeroporto di Stoccarda scendendo alla fermata Echterdingen. Non per diletto ma per recarmi al mio vecchio posto di lavoro.
Con il passare dei mesi, mi accorsi, come succede spesso a chi si muove sempre con i mezzi, di incontrare sempre le stesse persone. Oltre alla signora con il cartellino rosso con stampata su la A di ‘Arsch-Karte’, incominciai a notare una ragazza colombiana. Sui trent’anni, magra, capelli castano chiaro spesso raccolti e viso dai tratti gentili, la notai inizialmente perchè parlava sul treno in spagnolo. Anche lei scendeva a Echterdingen: la sua azienda si trovava però nelle immediate vicinanze della stazione, io invece dovevo camminare un po’ di più.
Non ci incotravamo tutti i giorni perchè io lavoravo a turni settimanali dalle 8:00 o dalle 9:00. Ci incrociavamo peró con una certa regolarità da permettermi di riconoscere, sotto la sua giacca invernale, un principio di pancino da dolce attesa.
Mi sono trovata così a seguire da lontano lo sviluppo della sua gravidanza. Si dice che una donna in gravidanza diventi ancora piú bella, questa tesi lei la confermava al 100%.
A un certo punto mi accorsi della sua mancanza: sarà entrata nell’ottavo mese, mi dissi.
Fino all’anno scorso quando, di colpo, ricominciò a prendere il treno. Pancione sparito, linea rigorosamente recuperata, qualche segno di stanchezza in più nel suo volto ma tutto sommato dall’aria equilibrata.
Prima scrivevo di aver chiuso un cerchio perché oggi in metropolitana l’ho rivista. In modo totalmente inaspettato e su una tratta dei mezzi completamente diversa, sulla U6 verso la stazione centrale. È salita sul treno con il suo bambino in carrozzina. Il cerchio lo ha chiuso proprio lui, permettendomi di vedere il frutto di quel pancione. Bellissimo, dai capelli chiari un po’ mossi e gli occhi scuri, capace di parlare, di alzarsi e di interagire sia in tedesco che in spagnolo. Di ritorno dall’asilo con la mamma, ha stregato in un attimo con il suo sorriso i passeggeri seduti vicino a loro nel vagone.
Chissà magari penserete che ho un po’ della stalker ma in realtà io credo di no. È che quando esco di casa mi diverto a tenere gli occhi in movimento perché sono curiosa e mi piace osservare chi incontro. Lo faccio credo da sempre. Oggi ne scrivo perché questa ragazza colombiana mi ha mostrato quanto sia bello il cerchio della vita. Da ragazza spensierata è diventata una mamma affettuosa. Perché in fondo il cambiamento è una delle poche costanti che la vita non si stancherà mai di portarci.
“Per una donna fare carriera è più difficile ma è più divertente“.
Venticinque anni fa Marisa Bellisario lasciava la consapevolezza che ogni donna, se determinata e coraggiosa, in grado di osare e inseguire le proprie ambizioni, può raggiungere qualsiasi traguardo, nella vita come nel lavoro. La Bellisario, scomparsa nel 1988, era definita manager dura ma corretta dalla stampa internazionale e il suo percorso professionale in Olivetti è degno di ammirazione. Infatti la sua è la prima carriera in Italia nell’ambito delle telecomunicazioni e dell’informatica e la prima di respiro internazionale, perché è lei stessa a scrivere di “aver scoperto venti anni prima di economisti ed esperti che un’impresa deve essere internazionale”.
Ogni anno dal 1989 la Fondazione che da lei prende il nome, presieduta da Lella Golfo, premia le eccellenze femminili che si sono distinte nella professione, nel management, nella scienza, nell’economia e nel sociale a livello nazionale e internazionale. ‘Donne ad alta quota‘ è un premio pensato per riconoscere l’impegno delle donne nel lavoro che quest’anno si è svolto il 20 giugno.
La Fondazione Marisa Bellisario promuove lo studio e la progettazione di azioni rivolte al mondo del lavoro, dell’imprenditoria femminile e del management con interesse particolare verso le nuove tecnologie. La Fondazione desidera valorizzare le professionalità femminili che operano nel settore pubblico e privato e promuove una cultura attenta alla parità in un dialogo aperto nella società. Ha come obiettivo principale quello di richiamare costantemente l’attenzione del mondo politico, delle istituzioni, dell’imprenditoria e del mondo del lavoro su idee e progetti innovativi, per promuovere e sostenere l’affermazione delle professionalità femminili in ambito nazionale ed internazionale.
Decisionismo, capacità e competenze coniugate con l’esperienza maturata a livello internazionale hanno fatto del profilo professionale di Marisa Bellisario una donna lungimirante e coraggiosa. La Fondazione Bellisario porta avanti il suo impegno che ha rappresentato per la storia femminile un simbolo dell’affermazione della parità tra uomo e donna.